Il buio a chi non ha mai fatto paura?
Dopo la lettura di questo post potrai essere certo che non esiste essere umano che in vita sua non abbia paura del buio; andiamo insieme a scoprirne il perché.
In questo articolo
Come mai il buio fa paura?
Proviamo a dare una risposta avvalendoci del pensiero di due grandi psicoanalisti Bowlby (padre della teoria dell’attaccamento) e Freud (padre della psicoanalisi).
Partiamo da qui…
tutti siamo stati bambini e tutti abbiamo avuto paura del buio.
La paura del buio per Bowlby
Bowlby ha affrontato il tema del buio avvalendosi del suo impianto teorico circa l’angoscia da separazione che scatta quando la base sicura viene a mancare. La base sicura nella teoria dell’attaccamento è rappresentata generalmente dalla madre o dal care giver che ne fa le veci.
La paura del buio è: l’angoscia che subentra per la paura di un predatore.
Bowlby adotta una lettura evoluzionistica, etologica, facendo un parallelismo tra il comportamento delle scimmie di macaco e quello dell’essere umano. L’angoscia è vista e letta solo in chiave biologica e quindi non ha niente di morale.
La paura del buio aiuta a mantenere il bambino vicino alla madre e lo scongiura dal possibile attacco di un predatore. Sembra impossibile, ci consideriamo tanto evoluti eppure il nostro cervello funziona ancora in modo così arcaico. Possiamo ravviare come nella visione di Bowlby non esiste una dialettica tra sé e altro, ma tra ontogenesi e filogenesi.
È proprio la teoria evoluzionista ad affermare quanto i processi motivazionali si basino su predisposizioni universali innate.
Difronte a non avere vicino a sé “l’altro sicuro” si attivano i 5 pattern specie specifici: riso, pianto, grida, afferrare, camminare che determinano i Modelli Operativi Interni (MOI).
Psicologia delle cure materne
Il tema delle cure materne nella formazione della personalità del bambino è un argomento ampiamente trattato in psicologia. Autorevoli psicologi quali Freud, Klein, Bowlby, Winnicott, Fairbairn, e Lacan hanno affrontato
La paura del buio, quindi del predatore, non scompare: anche l’adulto ha paura di qualcosa. Secondo Bowlby dietro a quel “qualcosa” si nasconde sempre la paura di un predatore.
La paura del buio per Freud
Per Freud invece il discorso è diverso. In Freud la prospettiva è esattamente all’opposto, il campo della paura è determinato dal rapporto tra se e altro. Da un estratto della Tre saggi sulla teoria sessuale (1905):
Una volta sentii un bambino dire alla zia, in una camera al buio:
“Zia, parla con me; ho paura del buio”.
La zia allora gli rispose:
“Ma a che serve? Non mi vedi lo stesso”.
“Non fa nulla”, ribatté il bambino, “se qualcuno parla c’è la luce”.
Se qualcuno parla c’è la luce…per il bambino in questione non è fondamentale soltanto il sentirsi vicino ad una base sicura (la zia), ma per “fare la luce” che illumina il buio, occorre che si parli.
Qui la teoria di Bowlby sembra arrestarsi, anche se ipotizziamo che il bambino abbia uno stile di attaccamento di tipo insicuro, questo non spiega come mai si tranquillizzi solo se sente la voce dell’altro.
Per uscire dall’impasse dobbiamo adesso spostarci all’interno di un altro paradigma, fondativo della psicoanalisi Lacaniana, quello del rapporto tra significante e significato.
Il linguaggio del buio
Per comprendere la paura del buio non possiamo fermarci al mero evoluzionismo. Zenoni nel suo volume “Il corpo e il linguaggio nella psicoanalisi” (1999) espone in modo chiaro come l’essere umano non possa essere rappresentato soltanto da una teoria evoluzionista che lo pone come diretto discendente delle scimmie. Zenoni facendo rifermento a studi fondati di paleoantropologia dimostra come non possiamo considerarci diretti discendenti delle scimmie.
Non è che l’animale divenga uomo perché il cervello si sviluppa, ma questo si sviluppa per quello di un uomo.
Così il piccolo dell’uomo allontana il seno, per istinto, ma poi anche impara a mimare il “No!”, e questo non è riconducibile ad un istinto; l’essere umano nasce pre-cablato dal linguaggio, nasce in un “bagno di linguaggio”.
Il linguaggio determina la natura dell’essere umano che non è quella dell’animale razionale, ma solo la natura dell’uomo in quanto tale, in quanto essere parlante.
Nella frase rivelatrice, è in azione il simbolo come momento di rottura e apertura verso il senso che non va preso alla lettera (significante), ma va oltre la lettera: significato.
Nel caso riportato da Freud, il bambino ci sta dicendo che ha paura del buio, perché il buio fa battere forte il cuore, il cuore che batte forte è un cuore che trabocca d’amore, è proprio il “troppo” che apre all’angoscia. Infatti il bambino chiede che qualcuno parli affinché questo “troppo amore” venga un po’ smorzato, modulato.
Per concludere, volendo tenere insieme le due prospettive:
nel buio si nasconde un predatore, ma se qualcuno parla, il predatore scompare. Se qualcuno parla siamo in due (io e l’altro), il vuoto viene meno (angoscia), il cuore può traboccare meno d’amore, si può calmare, ora sento (voce) che qualcuno è con me…mi parla.
Dottore in Psicologia, Facilitatore in Mindfulness (ric. IPHM), Master DCA (Disturbi del Comportamento Alimentare), Master in Sessuologia Clinica, Master in Linguaggi della Psiche, Conoscitore in psicosomatica, Poeta, Studioso di filosofia e psicologia del profondo