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Differenze tra Freud e Jung

La questione ineliminabile del soggetto

Nel 1934 Jung tenne a Basilea, presso la “Società di Psicologia”, una serie di conferenze che poi furono riunite in volume dal titolo: Introduzione alla Psicologia Analitica.

Carl Gustav Jung (1875 – 1961), 1960. (Foto di Douglas Glass/Paul Popper/Popperfoto/Getty Images)

Riportiamo l’incipt della prima conferenza che riteniamo emblematica per il nostro discorso sulla psiche. Tale citazione riverbera in questo nostro inizio un po’ come sanno fare alcuni sogni che arrecano al sognatore contenuti numinosi anticipando avvenimenti futuri.

Vedremo come il tema del “a priori” ritornerà lungo questo scritto, ma adesso con Jung: «La psicologia non è magia nera, è una scienza: la scienza della coscienza e dei suoi dati; essa è anche la scienza dell’inconscio, ma solo in seconda istanza, poiché l’inconscio non è direttamente accessibile, proprio perché inconscio. Sicuramente ci sono persone che non temono di affermare: “L’inconscio non ha segreti per me; lo conosco come le mie tasche!” Io rispondo loro: “Lei ha forse percorso tutta la sua coscienza, ma ignora completamente il suo inconscio, poiché l’inconscio è veramente inconscio; esso è precisamente ciò di cui non siamo informati. Non dimentichiamo questa premessa, poiché si utilizza il termine di “inconscio” con superficialità, parlando per esempio di dati inconsci, di idee, di immagini, di fantasie inconsce ecc. Questa è una deplorevole abitudine verbale. […] Non mi si rimproveri, dunque, se arrivo a parlarvi di una rappresentazione immaginativa inconscia. Per essere rigorosi si dovrebbe dire una rappresentazione immaginativa che è stata inconscia; poiché l’inconscio deposita sulle spiagge della coscienza una valanga di apporti, e quando li chiamiamo “inconsci”, non facciamo che designare la loro origine. Tutto quello di cui siamo coscienti è, naturalmente, associato all’Io attraverso la mediazione della coscienza. L’inconscio, invece, non ci è direttamente accessibile; bisogna ricorrere a metodi speciali che trasferiscano nella coscienza i contenuti inconsci. La psiche inconscia è di natura interamente sconosciuta; i suoi prodotti sono sempre espressi dalla coscienza in termini di coscienza; questo è tutto ciò che si può fare; non possiamo andare oltre e dobbiamo sempre tener presenti queste circostanze nella nostra mente come ultimo criterio del nostro giudizio, quando cerchiamo di dedurre, dalla particolare qualità dei prodotti dell’inconscio, la natura di ciò che deve averli originati» (Jung, 1934, cit. da Elena Caramazza p. 43-44).

Una scienza che non può accedere direttamente al dato da osservare, ma lo può solo inferire osservando l’atmosfera che tale dato inconoscibile produce. Un muro invalicabile ci separa dall’inconscio di cui già, prima di Jung, parla Freud che a partire dal 1899 con l’opera L’interpretazione dei sogni inaugura la Psicoanalisi.

Tecnicamente la psicoanalisi è una disciplina psicologica il cui oggetto di studio è la psiche colta nella sua duplice accezione di psiche conscia (ciò di cui sono consapevole) e inconscia (ciò di cui non sono consapevole), nonché una prassi terapeutica che aiuta l’individuo a prendere coscienza degli aspetti disfunzionali di sé (in quanto rimossi dalla coscienza) al fine di renderli funzionali, quindi adattati e adatti, alla società del tempo cui egli appartiene.

Nel suo procedere come scienza la psicoanalisi sviluppa teorie e modelli prefiggendosi di poter giungere ad una rappresentazione universale ed esaustiva della psiche, tuttavia è proprio in questo presupposto che inevitabilmente prende forza il suo stesso limite, il suo opposto e contrario: «Il problema della presenza ineliminabile del soggetto ricercante nell’oggetto della ricerca psicologica» (Trevi, 2000, pp. 9,10).

Inevitabilmente il soggetto, il ricercatore, altera con la propria psiche l’oggetto stesso della sua ricerca, non dimentichiamo che un ricercatore è prima di tutto un individuo influenzato, determinato, inquinato, dalla propria storia di essere umano, dal proprio trascorso di vita, ed è proprio questo vissuto, in buona parte inconscio, che influenza e orienta la ricerca stessa; tale limite è lampante in psicologia, ma si potrebbe estendere a tutte le discipline scientifiche, quand’anche la stessa fisica quantistica ci illustra come l’osservatore influenza gli esiti degli esperimenti.

«Se la psicologia del positivismo – a parte la ricchezza delle osservazioni e delle sperimentazioni – si era risolta nell’assidua ricerca delle determinanti ultime dell’agire individuale, l’introduzione sempre più massiccia della nozione di inconscio, con Janet e con Freud, aveva riproposto una scienza rigorosamente deterministica della psiche, la cui novità metodologica consisteva unicamente nello spostamento a livelli inconsapevoli della motivazione ultima di ogni funzione psichica, dalla percezione alla memoria, dall’emozione al sentimento, dal pensiero alla decisione operativa» (Trevi, 2000, p. 62).

Freud: l’inconscio funziona come un linguaggio

Fu proprio grazie ai suoi studi sull’isteria che Freud dimostrò quanto il fenomeno osservato dalle scienze positive (neurologia, psicologia sperimentale) era a monte determinato da una matrice psichica inconscia che andava a configurare le facoltà cognitive del soggetto secondo uno specifico “discorso inconscio”.

Racconta Freud: «Eravamo in estate, vi era stato un periodo di caldo intenso, e la paziente aveva sofferto parecchio per la sete; infatti, senza che sapesse indicare un motivo, il bere le era diventato tutto a un tratto impossibile. Prendeva in mano il bicchier d’acqua agognato, ma non appena lo avvicinava alle labbra, lo respingeva come un’idrofoba. Evidentemente, in quei secondi, era preda di un’assenza. Viveva solo di frutta, di meloni ecc, per mitigare la sete tormentosa. Questo durava da circa sei settimane, quando avvenne che una volta in ipnosi ragionasse della sua dama di compagnia inglese, che non amava, e raccontò allora, visibilmente inorridita, che una volta era entrata nella sua stanza, e aveva visto il suo cagnolino, questa bestia ripugnante, bere da un bicchiere. Non aveva detto niente perché voleva essere gentile. Dopo avere sfogato energicamente la rabbia che le, era rimasta dentro, chiese da bere, bevve senza inibizione una grande quantità d’acqua e si svegliò dall’ipnosi col bicchiere alle labbra. Il disturbo con ciò era scomparso per sempre» (Freud, 1995, pp. 38, 39).

In questa testimonianza di Freud non passa inosservato quanto nel comportamento della paziente (Anna O.), nel suo “parlare”, si nasconda una forma peculiare di espressione: unica e specifica. Qualcosa, il significante (l’impossibilità di bere), sta per qualcos’altro, l’esperienza passata significativa e al contempo indicibile (il cagnolino che beve al bicchiere).

La coscienza aveva rimosso il ricordo, per la paziente ripugnante, del cane che beveva al bicchiere.

La rabbia repressa dalle buone maniere che la paziente imponeva a se stessa (Super-Io) aveva causato la rimozione di tale ricordo che divenuto inconscio agiva, motivava, spingeva la donna a non bere; il desiderio pulsionale di sfogarsi (Es), per liberarsi da un’immagine fastidiosa che aveva invaso la coscienza era stato bloccato, l’energia psichica non scaricata si era trasformata in un sintomo (dal greco σύμπτωμα, symptoma, “evenienza”, “circostanza”, a sua volta derivato da συμπιπτω, sympipto, “cado con”, “cado assieme”).

Inizialmente la prassi terapeutica inaugurata da Freud prevedeva l’uso dell’ipnosi al fine di abbassare le difese psichiche del paziente, con l’intento di instaurare un dialogo con l’inconscio per dare possibilità al rimosso di manifestarsi esautorandone il sintomo; “il disturbo con ciò era scomparso per sempre”.

Ritornando alla testimonianza di poco sopra è possibile osservare quanto l’inconscio sia creativa-mente capace di mettere insieme, co-llegare, un significante per un “significato altro” che attende di essere dischiuso: portato a coscienza senza la necessità di una coatta decifrazione.

Il simbolo (dal greco “symballein”, mettere insieme) è proprio ciò che l’inconscio produce nella sua costante attività creativa.

Una delle principali caratteristiche del simbolo è quella di esser pregno di significati, una pregnanza tale che spesso l’interpretazione e l’ermeneutica non posso prosciugare interamente (sarebbe questo il sogno impossibile del nevrotico). Più modestamente possiamo convenire che è possibile estrarre dal simbolo quanto basta al fine di creare le condizioni per cui l’energia psichica (libido) della quale il sintomo ne è la maschera (segno) possa essere liberata e trasformata; il sintomo fodera il simbolo.

Il simbolo è ciò che l’inconscio produce nella sua attività creativa, alimentata da un movimento di energia psichica o libido che fluisce all’interno del sistema umano. Con Trevi: «[…] Per Freud il simbolo ha lo statuto – netto e ben circoscritto – della significazione indiretta. Ciò vuol dire che per lui, nel simbolo, un significante rimanda sempre a un significato univoco e perfettamente individuabile, purché si conosca il codice – peraltro assai semplice – che è sotteso a quel rimando. Il simbolo esprime in maniera indiretta ciò che non può essere, come tale, accolto dalla coscienza, per limpide e inequivocabili ragioni di difesa. In quanto tale, il simbolo “traveste” un contenuto inaccettabile dalla coscienza e, con questo travestimento, lo rende in qualche modo accettabile. Il simbolo si riferisce pertanto – sempre ed esclusivamente – a un contenuto pulsionale rifiutato dalla coscienza (Jones 1916).; a un contenuto rimosso, che, nel suo tragitto di “ritorno”, non può non “travestirsi” ed esprimersi indirettamente» (Trevi, 2000, p. 85).

Meta della psicoanalisi è per Freud il passaggio dell’individuo dalla “fase orale” alla “fase genitale” intesa come sviluppo psicosessuale fisiologicamente corretto. Tale percorso prevede che la coscienza sia coinvolta nell’eliminare l’inconscio personale che si era costituito proprio dalla rimozione di contenuti intollerabili e che aveva dato origine ai sintomi, dunque alla patologia.

Jung: l’inconscio non si può ridurre, è autonomo

Diversa è la visione di Jung che considera l’inconscio irriducibile e autonomo, dotato di una sua progettualità da cui può prendere origine il processo di individuazione.

Dopo un iniziale sodalizio con Freud, Jung nel 1912-13 prende le distante dal padre della psicoanalisi inaugurando la “Psicologia Analitica o Psicologia del profondo”. La separazione da Freud e la conseguente dimissione come presidente dell’Associazione Internazionale di Psicoanalisi (1914), segnarono un momento critico per Jung che per le sue teorie fu accusato di misticismo e allontanato dal mondo della psicoanalisi come Freud la intendeva.

Dalla biografia di Jung si evince tuttavia che questa separazione fu all’origine di un fervido periodo ricco di intuizioni sull’inconscio. In “Ricordi, sogni, riflessioni” scrive Jung: «Non ho mai potuto consentire con Freud che il sogno sia una “facciata”, dietro la quale si nasconde il suo significato; un significato già noto ma malignamente, per così dire, sottratto alla coscienza. Secondo me i sogni sono natura che non ha intenzioni ingannatrici, ma esprime qualcosa come meglio può, così come una pianta cresce o un animale cerca il suo cibo come meglio possono. Così anche gli occhi non vogliono ingannare, ma forse ci inganniamo perché gli occhi sono miopi. Oppure, sentiamo male perché le nostre orecchie sono piuttosto sorde, ma non sono le orecchie che vogliono ingannarci. Già molto prima di incontrare Freud avevo considerato l’inconscio, e i sogni che ne sono l’immediata espressione, come un processo naturale al quale non si può attribuire alcuna arbitrarietà, e, soprattutto, alcuna intenzione di mistificare» (Jung, 1961, p. 203).

Cause del dissidio tra Freud e Jung

Le cause dello strappo tra Jung e Freud sono di carattere prettamente epistemologico e possono riassumersi nelle seguenti due diverse concezioni:

  • la libido è concepita da Freud esclusivamente come una pulsione sessuale, mentre Jung parla di in un’energia psichica alla base di ogni comportamento umano
  • oltre all’inconscio personale individuato da Freud secondo Jung esisterebbe un “inconscio collettivo” che ereditiamo dalla nascita ed è comune a tutti gli esseri umani, tale inconscio collettivo è sede degli archetipi

Scrive Jung: «Fu il frequente ricorso a forme associative e strutture arcaiche, che osserviamo nella schizofrenia, a darmi la prima idea di un inconscio formato non solo da contenuti di coscienza originari andati perduti, ma anche da uno strato in certo modo più profondo, dello stesso carattere universale dei motivi mitici che caratterizzano la fantasia umana in generale. Questi motivi non sono affatto inventati, ma piuttosto trovati, come forme tipiche che compaiono spontaneamente e più о meno universalmente, indipendentemente dalla tradizione, in miti, fiabe, fantasie, sogni, visioni e sistemi deliranti. A uno studio più approfondito di queste forme tipiche risulta che si tratta di atteggiamenti, modi di fare, tipi di rappresentazione e impulsi che devono essere considerati come il comportamento istintivo tipico dell’uomo. Il termine da me scelto per designare ciò, e cioè “archetipo”, coincide quindi con il concetto noto in biologia del “pattern of behaviour”. Qui non si tratta affatto di rappresentazioni ereditarie, ma di pulsioni e forme istintive ereditarie, come si possono osservare in tutti gli esseri viventi. Se perciò nella schizofrenia compaiono con particolare frequenza forme arcaiche, questo fenomeno a mio parere indica che in questa malattia i fondamenti biologici della psiche sono compromessi in misura ben maggiore che non nella nevrosi. Si sa per esperienza che strutture oniriche arcaiche con la loro caratteristica numinosità compaiono, negli individui normali, principalmente in certe situazioni che toccano in qualche modo i fondamenti dell’esistenza individuale, per esempio in momenti in cui la vita è in pericolo, prima о dopo incidenti, gravi malattie, operazioni ecc.; о allorché si sviluppano problemi psichici che imprimono alla vita individuale una svolta che potrebbe essere catastrofica, oppure in genere nei periodi critici della vita, quando una modificazione dell’atteggiamento psichico precedente s’impone imperiosamente, oppure prima, durante e dopo profonde trasformazioni nell’ambiente immediato о più lontano. Simili sogni non venivano solo nell’antichità presentati all’Aeropago о al Senato romano; nelle società primitive sono ancora oggi occasione di assemblea plenaria. Ciò mostra come da sempre sia stato loro riconosciuto un certo significato collettivo» (1909, Opere, Psicologia della dementia praecox, pp. 912-913).

La relazione Freud-Jung per analogia ci riconduce a quella di insegnante-allievo e in senso più esteso a quella di padre-figlio. Una metafora, un’immagine che inevitabilmente vede nel figlio la possibile funzione di catalizzatore di un’eredità. D’altronde anche Freud per la teoria sulla libido fece altrettanto delle intuizioni di Schopenhauer in merito al concetto di volontà di vivere (volontà di potenza, il mondo come rappresentazione).

La dilatazione del concetto di libido

Una volontà di vivere, di andare oltre, come il nostro stesso respirare che inevitabilmente: raccoglie (eredita), deposita (semina) e infine trasforma.

Ancora citando Trevi: «Se l’antropologia sottesa all’universo psicologico di Freud è quella del fondamento pulsionale dell’agire umano e del suo correlato psichico che è il desiderio, l’antropologia sottesa all’universo psicologico di Jung è l’individuazione, con il suo correlato psichico del progetto. […] Che il progetto, a differenza del desiderio, sia correlato al rischio, non solo dello scacco, ma anche dell’inautenticità, rappresenta indubbiamente un problema che la, psicologia positivistica ignora, ed è connesso al livello di complessità in cui l’antropologia del progetto si propone. […] Al pari del desiderio, che può esprimersi o rappresentarsi sia al livello conscio sia al livello inconscio, così il progetto si articola tra inconscio e coscienza a seconda che questa possa ospitarlo o meno nell’organizzazione delle sue forme logiche o immaginali. Poiché il progetto è sempre sintesi o “composizione” di opposti che il pensiero dirimente della coscienza mantiene separati, esso deve servirsi, almeno in molte circostanze, di altre forme di organizzazione – verbale e visiva – onde potersi in qualche modo formulare. Il progetto deve servirsi – come si vedrà meglio in seguito – di una logica “compositiva” che ha il suo strumento elettivo e il suo nucleo organizzatore nel simbolo» (Trevi, 2000, pp. 74,75).

Secondo la Psicologia Analitica il processo di individuazione si struttura in quattro stadi:

  • la confessione, i problemi esposti dal punto di vista del paziente
  • la delucidazione, il metodo interpretativo (Freud) la relazione di transfert
  • l’educazione, l’insegnamento ottenuto con la “delucidazione” è applicato al comportamento e alla sfera sociale
  • la trasformazione, il coinvolgimento dell’analista rivela al massimo la sua pertinenza, l’analista costella l’inconscio del paziente ciò che è altro dalla coscienza

Scrive Samuels: «Il secondo è il terzo stadio riguardano rispettivamente la normalità e l’adattamento sociale, ma per alcune persone ciò non è abbastanza: anzi, fermarsi a questo sarebbe per loro limitativo e dannoso. Viceversa, i cambiamenti che si possono verificare nel corso dello stadio della trasformazione non portando soltanto ad essere “normali” o “adattati”, ma a divenire se stessi. Si tratta, quindi dello stadio dell’analisi che più da vicino riguarda l’individuazione» (Samuels, 1989, p. 289).

A questo punto la distanza tra Freud e Jung è ormai netta, pur avvalendosi delle fondamentali scoperte di Freud sull’inconscio, Jung proseguirà da solo il proprio sentiero verso la Psicologia Analitica.

Riportiamo alcuni passi da Simboli della trasformazione (1912), il volume del dissidio, che ben mettono in evidenza la distanze tra i due: «Nei Tre saggi sulla teoria sessuale (1905). Freud ha introdotto il suo concetto di libido definendola, come abbiamo detto, sessuale. È provato che la libido è suscettibile di scissione e può trasmettersi ad altre funzioni e ad altre regioni del corpo che in sé nulla hanno a che fare con la sessualità, sotto forma di “afflussi-supplementari” di libido. La costatazione di questo fatto ha indotto Freud, nell’opera citata, a paragonare la libido a un fiume che si può dividere, arginare, che si riversa in canali collaterali eccetera. Quindi, pur avendo definito la libido come sessualità, Freud non proclama che “tutto” è sesso, ma ammette l’esistenza di particolari forze istintuali la cui natura non è meglio conosciuta e alle quali però egli fu costretto ad attribuire la facoltà di accogliere gli “afflussi supplementari di libido” sopra accennati» (Jung, 1916, p. 135).

Jung riserva alla libido una concezione diversa rispetto a Freud, con Jung la libido non è solo energia sessuale, ma energia psichica in senso lato: «L’atteggiamento riservato che adottai nei riguardi della teoria sessuale nella prefazione alla mia Psicologia della demenza precoce, pur ammettendo i meccanismi psicologici indicati da Freud, fu dettato dalla posizione che aveva allora la teoria della libido; questa così come era concepita non mi consentiva di spiegare disturbi funzionali, interessanti la sfera di altri istinti al pari di quella della sessualità, alla luce di una teoria unilateralmente sessuale. In luogo della teoria sessuale cosi com’è presentata nei Tre saggi, mi parve convenisse meglio un’interpretazione in termini d’energia, che mi consentì d’identificare l’espressione “energia psichica” con il termine “libido”. Quest’ultimo esprime un desiderio o un impulso non inibito da istanze morali o di altro genere. La libido è un appetitus allo stato naturale. Sotto l’aspetto ontogenetico, l’essenza della libido è costituita dai bisogni corporali, come la fame, la sete, il sonno, la sessualità, e dagli stati emotivi o affetti. Tutti questi fattori posseggono le loro differenziazioni e le più sottili ramificazioni nella struttura complicatissima della psiche umana. Non esiste il minimo dubbio che anche le più alte differenziazioni siano in origine risultate da forme primitive più semplici. Così molte funzioni complicate cui oggi dobbiamo negare carattere sessuale, derivano in origine dall’istinto di riproduzione. È noto che nell’evoluzione ascendente della serie animale si è effettuato un importante dislocamento dei principi della propagazione: la massa dei materiali di riproduzione, che compensava l’accidentalità della fecondazione, venne a ridursi sempre più a favore di una sicura fecondazione e di un’efficace protezione della prole. Attraverso la riduzione della formazione di ovuli e di sperma, venne a liberarsi una notevole quantità di energia che cercò e trovò nuovi modi d’impiego. Vediamo così che nella serie animale le prime tendenze artistiche sono al servizio dell’istinto» (Ibidem, p. 138).

Avvalendosi della teoria Freudiana della libido Jung trova difficoltà ad applicarla a casi non direttamente collegati alla sfera sessuale, propone quindi di intendere la libido come energia psichica: un appetito naturale (fame, sete, riproduzione, etc…) che si manifesta secondo specifiche modalità tra cui anche quella sessuale.

La teoria junghiana della libido abbraccia, collega, connette il regno animale con quello umano, ci esorta a vedere l’arte nella creazione di un nido, nel canto d’amore o nella danza di alcuni uccelli.

Se tale espressione artistica nella sfera degli animali è unicamente finalizzata alla riproduzione della specie, nell’essere umano è andata ulteriormente specializzandosi, così come possiamo “fare all’amore” in ogni momento con noi stessi (libido narcisistica) oppure con altri (libido oggettuale), per lo stesso principio possiamo concepire un’opera d’arte (sublimazione).

Con Jung il concetto di libido si dilata a tal punto da affiancarlo a quello di generale intenzione.

«[…] Noi sappiamo di fatto troppo poco sulla natura degli istinti umani e sul loro dinamismo psichico per poterci azzardare a concedere il primato a un solo istinto. Ragion per cui è più prudente, parlando della libido intendere con questo termine un valore energetico suscettibile di comunicarsi a una sfera qualsiasi di attività: potenza, fame, odio, sessualità, religione eccetera, senza essere un istinto specifico. Dice giustamente Schopenhauer (Il mondo come volontà e rappresentazione, I, S23).: “La volontà, come cosa in sé, differisce completamente dalla sua manifestazione, fenomenica ed è assolutamente indipendente dalle forme di quest’ultima, che essa assimila solo quando si manifesta; e che quindi concernono solo la sua estrinsecazione obiettiva, ma sono estranee alla volontà stessa”» (Ibidem, p. 140).

Creare, produrre, riprodurre, e l’elenco potrebbe ancora proseguire, sono tutti termini che hanno a che fare con una forza creatrice esperita e soggettivamente messa in scena: rappresentata.

Una forza creatrice abita l’inconscio

Tale forza creatrice abita l’inconscio dell’essere umano e trova la sua massima libertà di espressione nel sogno. Fuori da ogni rigida convenzione del pensiero razionale, l’irrazionalità del pensiero onirico collega immagini, le fonde insieme, le nasconde, le camuffa secondo una modalità creativa che possiamo ravvisare solo nei bambini o negli uomini primitivi.

Come il bambino è uno stadio, una tappa, nello sviluppo dell’essere umano, per analogia anche il primitivo rappresenta altrettanto nei confronti dell’umanità.

Con rispetto verso il suo maestro, Jung non ci nasconde che lo stesso Freud avesse individuato un collegamento tra il sogno e il mito: «L’indagine su queste formazioni della psicologia dei popoli non è affatto esaurita; tuttavia, ad esempio per i miti è senz’altro probabile che essi corrispondano ai residui deformati di fantasie di desideri di intere nazioni, e cioè ai sogni secolari della giovane umanità» (Ibidem, p. 37).

Residui, eredità, non produzioni di secondo livello rispetto a un pensiero razionale che facilmente identifichiamo come utile. Nella fantasia, nell’immaginazione, è all’opera il pensiero irrazionale per sua natura creativo, e “creare” abbiamo visto è una necessità, una spinta interna: una motivazione, un’intenzione.

Ancora un passaggio con Jung per sottolineare la necessita del tutto umana alla mitopoiesi, al fare dal nulla: «Chiunque abbia occhi e senno è in grado di vedere che il mondo è morto, freddo e infinito, e mai fino ad ora è stato visto un dio e mai i nostri sensi ci hanno imposto di fare dell’esistenza di un tal dio un’esigenza. V’era bisogno al contrario di una più forte coercizione interiore, che può essere spiegata solo dalla forza irrazionale dell’istinto, per erigere, ad esempio, quelle posizioni di fede religiosa la cui assurdità era già rilevata da Tertulliano. Cosi è possibile certo lasciare un bambino all’oscuro del contenuto di antichi miti, ma non è possibile sottrargli il suo bisogno di mitologia e ancor meno la capacità di produrne. Si può affermare che se si riuscisse a recidere d’un tratto tutte le tradizioni esistenti nel mondo, tutta la mitologia e tutta la storia religiosa tornerebbero da capo con la generazione successiva. Solo a pochi individui, nel1’epoca di una certa spavalderia intellettuale, vien fatto di disfarsi della mitologia; la massa non vi riesce mai. Tutta l’istruzione e tutti i lumi di questo mondo non giovano a nulla; distruggono solo una manifestazione transitoria, ma non l’impulso creativo» (Ibidem, p. 38).

Il fare dal nulla, il mito, il pro-getto, già gettato, che in qualche modo abbiamo raccolto senza saperlo, per dirla con Hegel: «L’arte si sviluppa dunque come un mondo; il contenuto, l’oggetto stesso è rappresentato dal bello e il contenuto autentico del bello altro non è che lo spirito. È lo spirito nella sua verità, dunque lo spirito assoluto come tale, che costituisce il centro» (cit. Regnault, p. 24).

L’essere umano per cogliere “qualcosa” deve necessariamente passare per “qualcos’altro”, il simbolo funge da ponte di congiunzione affinché la coscienza possa intendere, sentire senza esaurire, il discorso dell’inconscio e della sua continua produzione creativa.

Tendenzialmente siamo portati a valutare positivamente ogni atto che ricada sotto il termine di “creativo”, eppure quando la libido si organizza nel creare un sintomo questo viene visto dall’opinione comune come una malattia, un deficit da colmare, oppure rinnegare.

In contraddizione a questo pensiero Jung sottolinea che: «La libido, come qui viene descritta, non è solo forza creativa che plasma e genera, ma possiede anche una capacità d’intuito un fiuto al pari di un essere vivente autonomo (di qui la possibilità di personificarla). Essa è un impulso diretto a uno scopo, come la sessualità che è un termine favorito di paragone. Il ”regno delle Madri” ha non poche connessioni con l’utero, con la matrice che, come tale, simboleggia spesso l’inconscio nel suo aspetto plasticocreativo. Questa libido è una forza della natura, buona e cattiva a un tempo, cioè moralmente indifferente. Unendosi a questa forza, Faust riesce a mandare ad effetto il vero compito della sua vita, dapprima con risultati negativi, in seguito a beneficio dell’umanità. Nel regno delle Madri egli trova il tripode, il vaso ermetico nel quale vengono celebrate le ”nozze regali”. A questo punto Faust ha bisogno della bacchetta magica fallica per compiere il più grande dei miracoli, cioè la creazione di Paride ed Elena» (Jung, p. 129).

L’inconscio collettivo

Se la libido è quell’energia che spinge l’essere umano all’individuazione, a sua volta l’individuo, ereditando una psiche, riceve un patrimonio di simboli che le generazioni umane hanno depositato in quello che Jung definisce come “inconscio collettivo”.

Tali simboli ereditati avrebbero la funzione di fornire una mappa lungo il sentiero dell’individuazione, permettendo così alla coscienza di poter instaurare un dialogo con l’inconscio e realizzare quel progetto di vita che la psiche avrebbe già in nuce.

Tornando a Trevi: «La straordinaria ricchezza simbolica caratterizzante l’immaginazione inconscia che accompagna (e probabilmente in gran parte determina) il processo di individuazione è solo un aspetto della più vasta ricchezza immaginale dell’uomo e comunque testimonia se assunta in questa prospettiva di non far parte di una sovrastruttura aleatoria, fittizia e in fondo inutile, ma, al contrario, di una struttura fondamentale, capace di determinare proprio quelle condizioni che costituiscono l’individuo come produttore di cultura. La vita immaginale dell’uomo è parte della struttura e non della sovrastruttura» (Trevi, 2000, p. 52).

La cultura che informa l’individuo secondo la società del tempo, anche consegna all’individuo le forme per la sua rivoluzione interiore, tuttavia mentre le forme che fanno dell’uomo un prodotto della cultura sono coscienti e note, quelle che fanno dell’uomo un produttore di cultura sono nascoste nella memoria della cultura stessa.

«[…] la cultura, essendo vivente organismo e perciò conservazione del passato e memoria, foggia bensì l’individuo secondo il suo canone conscio ma trasmette al contempo all’individuo stesso anche il deposito intero delle sue forme e perciò pure di quelle obliate e occultate al di sotto della dominanza storica del canone culturale momentaneamente accettato» (Trevi, 2000, p. 57).

Secondo Trevi il fine dell’individuazione non è quello della ascesa unilaterale lungo l’asse verticale, verso un mondo spirituale lontano da tutto ciò che è terreno e materiale, questo semmai è solo un tratto del cammino. La personalità individuata è pronta a realizzare il progetto di vita concretamente lungo l’asse orizzontale, l’asse terrestre, della cultura e società del tempo.

La cultura e la società che in qualche modo possono essere ritenute responsabili di nevrosi e psicosi non sono da rifiutare, ma da accogliere come materia, mater, originaria ed entro la quale morire simbolicamente per rinascere.

Ancora Trevi: «Né la direzione verticale né quella orizzontale dell’individuazione garantiscono dunque la positività della trasformazione della cultura. Ciò che invece l’individuazione permette è la liberazione sia da una concezione pessimistica della cultura vista unicamente come repressione della natura istintiva dell’uomo (che conduce all’immobilismo di un adattamento mortificato), sia da una concezione ugualmente pessimistica della cultura vista unicamente come ideologia (che si ribalta in un ottimismo utopistico-messianico tanto solenne quanto ingenuo). L’individuazione – se correttamente intesa – comporta sia l’assunzione individuale della vita pulsionale, riscattata dalla repressione esercitata dalla cultura, sia la liberazione dalla falsa coscienza determinata dalla curvatura ideologica della cultura. E ciò perché l’individuazione è innanzitutto assunzione critica che evita gli opposti pericoli di una sottomissione passiva e di un rifiuto pregiudiziale e irriflesso. […]Se l’individuazione non garantisce (cosi come non è garantita, conservando sempre il suo significato di rischio) non per questo essa non svolge un fondamentale compito antropologico. Essa, che, dal punto di vista dell’individuo astrattamente inteso, può essere considerata meta e conclusione dei fini psicologici, dal punto di vista della cultura e della società, può essere considerata la premessa indispensabile del costituirsi dell’uomo come individuo responsabile della storia dell’uomo stesso. Dove responsabilità non annulla il rischio del fallimento e della sconfitta, ma colloca tale rischio in quell’orizzonte di possibilità dischiuso dalla coscienza liberata» (Trevi, 2000, pp. 59, 60).

Il confronto tra Freud è Jung che abbiamo affrontato segna il passaggio di un testimone. Dalle straordinarie intuizioni di Freud sull’inconscio, sulla sua modalità espressiva quale linguaggio simbolico costituito da precisi registri di comunicazione (rimozione, sublimazione, spostamento), alla formulazione della teoria della libido come energia sessuale. Giungiamo poi alla visione di Jung che amplia e dilata il senso stesso di libido al livello di energia psichica. Energia che trova una sua realizzazione tanto nella sfera sessuale, quanto nella creatività in genere.

Jung parla infatti di appetito, di una spinta a divenire sé stessi da cui il processo di individuazione.

Abbiamo altresì colto come il simbolico sia la modalità con cui l’inconscio esprima quei contenuti che ancora la coscienza non può intendere e come questi contenuti non abbiano a che fare soltanto con il rimosso sessuale, ma ospitino anche un progetto di vita già dato al momento della nascita.

Da Ricordi, sogni, riflessioni: «Freud non si chiese mai perché fosse costretto a parlare continuamente della sessualità, perché questo pensiero lo dominasse talmente. Non si rendeva conto del fatto che la sua “monotonia d’interpretazione” esprimeva una fuga da se, stesso, o da quell’altro lato di lui che potrebbe forse essere definito “mistico”. Finché si rifiutava di riconoscere questo suo lato, non poteva riconciliarsi con se stesso. Era cieco di fronte ai paradossi e all’ambiguità dei contenuti dell’inconscio, e non sapeva che tutto ciò che emerge dall’inconscio ha un vertice e una base, un dentro e un fuori. Quando noi parliamo dell’esterno – ed è ciò che Freud faceva – consideriamo solo una metà, e per conseguenza emerge dall’inconscio un’azione opposta. Non c’era nulla da fare contro questa unilateralità di Freud. Forse una sua personale esperienza interiore avrebbe potuto aprirgli gli occhi: ma probabilmente il suo intelletto avrebbe ridotto anche questa a “pura sessualità” o a “psicosessualità”. Rimaneva votato a quell’unico aspetto, e proprio per questo motivo vedo in lui una figura tragica; perché era un grand’uomo e, ciò che è anche di più, un ispirato» (Jung, 1961, p. 193).

Bibliografia

  • Jung C. G, (1916), Simboli della trasformazione, Torino: Bollati Boringhieri
  • Jung C. G, (1934), Introduzione alla Psicologia Analitica – Le conferenze di Basilea a cura di Elena Caramazza, Bergamo: Moretti & Vitali
  • Jung C. G, (1961), Ricordi, sogni, riflessioni, Milano: Rizzoli (BUR)
  • Samuels A, (1989), Jung ei Neo-Junghiani, Roma: Borla
  • Trevi M, (2000), Per uno Junghismo critico – Interpretatio duplex, Roma: Giovani Fioriti Editore
Pubblicato il
25 Ottobre 2023

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