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Dalla ferita al simbolo: figure della perdita nella clinica e nella vita

Questo testo è relativo al seminario che ho tenuto il giorno 10 Dicembre 2025 presso Uni3 Livorno.

La lezione nasce da una domanda semplice: che cosa accade, dentro di noi, quando qualcosa ci ferisce e non torna più come prima?

Non parliamo solo di grandi traumi, lutti o eventi eccezionali. Parliamo anche di quelle fratture silenziose che attraversano la vita di ogni giorno: un amore che finisce senza essere compreso, un’umiliazione mai davvero digerita, una vergogna antica che continua a riaffiorare, un fallimento che non riusciamo a raccontare a nessuno.

La psicologia analitica di C.G. Jung offre una prospettiva particolare:

  • la ferita non è solo un evento che “è successo”
  • è una realtà psichica interna, una struttura viva che continua ad agire dentro di noi
  • e, se ascoltata nel suo linguaggio simbolico, può diventare via di trasformazione e di crescita, non semplice condanna

In questo senso, il percorso che ho proposto non è soltanto teorico. È un itinerario esistenziale, che attraversa quattro momenti:

  1. la natura della ferita psichica: che cos’è un complesso, come si forma, come ci rende vulnerabili
  2. il vissuto della perdita: l’abbassamento del livello mentale (abaissement), il “furto” di energia, la sensazione di non essere più padroni di sé
  3. la trasformazione in simbolo: come il dolore si esprime in sintomi, sogni, deliri, miti personali
  4. l’integrazione e la crescita: il metodo costruttivo, l’individuazione, la possibilità di pacificare il conflitto interno e trasformare la perdita in significato

In questo articolo

Ferita psichica e complesso: quando il dolore diventa struttura

Jung sposta l’attenzione dall’evento esterno alla realtà psichica interna. Non è il fatto in sé a costituire la ferita, ma ciò che quel fatto diventa dentro di noi.

Il complesso a tonalità affettiva

Jung chiama questa realtà interna complesso a tonalità affettiva. È un termine tecnico, ma possiamo tradurlo così:

  • un nucleo emotivo intenso (paura, vergogna, colpa, rabbia, abbandono…)
  • attorno al quale si aggrega una massa di rappresentazioni: ricordi, immagini, frasi, fantasie, scenari, posture, reazioni corporee
  • tenute insieme da un tono emotivo comune, di solito spiacevole o doloroso

In altre parole: la ferita non è un buco, ma un grumo di esperienza carica di affetto

Se pensiamo a un’umiliazione infantile, per esempio:

  • non resta solo l’immagine dell’episodio
  • si uniscono altre esperienze simili
  • si aggiungono parole sentite (“sei incapace”, “sei ridicolo”), sensazioni corporee (il calore al viso, il cuore che batte), pensieri (“non valgo nulla”, “devo sparire”), fantasie di vendetta o di fuga.

Tutto questo diventa una sorta di “corpo autonomo” nella psiche.

Una realtà psichica autonoma

Per Jung questo complesso non è inerte, non è solo un ricordo in archivio.

È descritto come:

  • indipendente
  • una “piccola psiche secondaria” con una sua volontà
  • capace di interferire con la memoria, il comportamento, le decisioni dell’Io

Quando diciamo:

Non so perché ho reagito così, non ero io;

oppure:

È più forte di me, ogni volta che succede quella cosa perdo il controllo;

È come se un frammento di psiche agisse come qualcun altro dentro di noi.

La massa di rappresentazioni: anatomia invisibile della ferita

Per comprendere la struttura della ferita, possiamo usare una metafora quasi anatomica.

Immaginiamo un “tessuto psichico” fatto di:

  • ricordi episodici
  • frasi interiorizzate (la voce dei genitori, della scuola, della religione, della cultura)
  • immagini simboliche (posture, scene ricorrenti, piccoli “film mentali”)
  • stati corporei (tensione allo stomaco, nodo in gola, spalle chiuse, respiro bloccato)
  • fantasie esplicite o implicite (“prima o poi mi abbandoneranno”, “un giorno capiranno quanto valgo”, ecc.)

Tutto questo forma quella che Jung chiama massa di rappresentazioni.

Non si tratta di un archivio neutro: questa massa è tenuta insieme da un affetto intenso, che ha tre funzioni:

  1. seleziona: attira a sé tutto ciò che risuona con quel tono emotivo
  2. tiene insieme: impedisce che gli elementi si disperdano
  3. si difende: si protegge da tutto ciò che potrebbe modificarla o smantellarla

Così, una ferita di rifiuto può far sì che:

  • ricordiamo in modo amplificato tutti gli episodi in cui ci siamo sentiti esclusi
  • dimentichiamo, o svalutiamo, i momenti in cui invece siamo stati accolti
  • interpretiamo ambiguità neutre come nuovi rifiuti (“non mi ha risposto subito, quindi non gli importa nulla di me”)

Il complesso, in questo senso, è come una lente emotiva che distorce la percezione del presente sulla base della ferita del passato.

Autonomia della ferita: la piccola psiche secondaria

Una delle immagini più usate da Jung è quella del “vassallo ribelle”.

L’Io – la nostra coscienza ordinaria, quella che dice “io sono” – è paragonato al re. Governa il regno della psiche finché tutto scorre in modo relativamente armonico.

Ma quando un complesso diventa troppo carico di energia:

  • smette di essere un semplice suddito
  • si comporta come un vassallo che usurpa il potere
  • crea uno “stato nello stato”, con leggi proprie

Quando il complesso prende la guida

Questo vassallo ribelle:

  • si manifesta in azioni sintomatiche: lapsus, dimenticanze selettive, gaffe, piccoli sabotaggi
  • irrompe nei sogni, nei sintomi del corpo, nei momenti di crisi
  • talvolta prende la scena in modo brutale, come nei disturbi dissociativi o nelle psicosi

È quel momento in cui:

  • diciamo qualcosa che non volevamo dire
  • ci blocchiamo proprio là dove avremmo bisogno di agire
  • ripetiamo sempre lo stesso errore relazionale, pur sapendo che ci farà soffrire

Dal punto di vista energetico, il complesso “ruba” libido all’Io: per alimentare la propria coesione ha bisogno di sottrarre energia alla coscienza.

Questo processo conduce al tema successivo: il vissuto della perdita.

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Il vissuto della perdita: abaissement e furto dell’energia

Il termine tecnico che Jung riprende da Pierre Janet è abaissement du niveau mental: abbassamento del livello mentale.

Significa, in sostanza:

  • una diminuzione dell’energia disponibile alla coscienza
  • un indebolimento dell’attenzione, della memoria, della capacità di sintesi
  • una maggiore vulnerabilità alle invasioni dei complessi

Micro-perdite quotidiane

Non serve essere “malati” per sperimentare questo fenomeno.

Ognuno conosce momenti in cui:

  • non si riesce a concentrarsi perché una preoccupazione continua a tornare
  • ci si sorprende a ripetere in testa una canzone il cui testo, guarda caso, parla di ciò che stiamo vivendo
  • si commettono errori assurdi proprio nei momenti più delicati (un esame, una performance, una conversazione importante)

Sono micro-dissociazioni: brevi istanti in cui l’Io perde la centralità, e il complesso affiora

È come se, interiormente, qualcuno ci sottraesse per un attimo il volante.

La perdita radicale nella psicosi

Quando la ferita è molto profonda e non integrata, il furto di energia diventa massiccio

Nei casi di schizofrenia (che Jung chiamava dementia praecox), i pazienti descrivono:

  • “furto del pensiero”: la sensazione che qualcuno dall’esterno rubi o inserisca pensieri
  • svuotamento dell’Io: incapacità di seguire un discorso, di mantenere una linea logica
  • immersione in un mondo di immagini, voci, significati che non si riesce più a governare

Dal punto di vista analitico, non è un agente esterno a rubare i pensieri: è il complesso autonomo che ha drenato l’energia dell’Io, lasciandolo senza forza.

Il vissuto soggettivo è quello di una perdita di sé: “non sono più io”, “non controllo più la mia mente”.

Sintomo e simbolo: quando il corpo parla al posto della voce

Quando il dolore non può essere pensato né detto, la psiche cerca un’altra via.

Il sintomo – isterico, ossessivo, psicosomatico – è spesso proprio questo: una frase pronunciata in un linguaggio diverso, che unisce corpo, immagine e affetto.

Il sintomo come metafora incarnata

Prendiamo un esempio classico, ispirato alla clinica della conversione isterica:

Una giovane donna sviluppa una abasia: non riesce più a camminare, pur non avendo nessuna lesione neurologica. Gli esami sono negativi, i medici parlano di “disturbo funzionale”.

L’analisi rivela che:

  • la donna è intrappolata in una situazione esistenziale che percepisce come insopportabile (per esempio un matrimonio senza amore, o un destino imposto)
  • da un lato non può ribellarsi apertamente
  • dall’altro non riesce a adattarsi interiormente

Il corpo allora mette in scena ciò che non può essere detto:

  • “non posso andare avanti”
  • “non posso fare quel passo”
  • “non riesco a sostenere la direzione che la mia vita sta prendendo”

La paralisi diventa simbolo vivente di un blocco esistenziale, il sintomo non è un puro guasto: è un messaggio.

Difesa e soddisfazione simultanea

Spesso nel sintomo coesistono:

  • una difesa (allontanare dalla coscienza un desiderio, una colpa, una paura)
  • e una forma paradossale di soddisfazione (esprimere ciò che non può essere ammesso)

Per esempio:

  • il disgusto esagerato verso la sessualità può difendere da fantasie ritenute “inaccettabili” e allo stesso tempo metterle al centro della scena;
  • una fobia può evitare incontri reali e, nello stesso tempo, mantenere il tema temuto costantemente vivo nell’immaginazione.

Il sintomo è un compromesso: contiene ciò che non deve esserci e ciò che deve restare nascosto, in una forma trasformata.

Delirio come mito personale: la follia che costruisce mondi

Quando il complesso prende il sopravvento e l’Io non basta più a reggere la tensione, la psiche può creare un mondo alternativo: il delirio.

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Nella prospettiva junghiana, il delirio non è solo “nonsenso”: è una costruzione simbolica grandiosa, una sorta di mito privato con cui la psiche cerca di compensare una realtà altrimenti insopportabile.

Esempio: dalla miseria alla regalità

Immaginiamo una donna che vive:

  • in estrema povertà
  • priva di riconoscimento sociale
  • senza relazioni profonde o valore percepito

La sua ferita è fatta di privazione, invisibilità, insignificanza.

Nel delirio, però, questa donna può dire:

  • “Io sono la Regina
  • “sono la proprietaria del mondo
  • “sono una banca di banconote vivente”
  • creare neologismi come “io sono il doppio politecnico”, per indicare la massima sapienza e potenza tecnica.

Da un punto di vista simbolico:

  • la regina compensa la miseria
  • la proprietaria del mondo risponde al vissuto di essere una nullità
  • la banca incarna il sogno di abbondanza illimitata

Il delirio è una gigantesca operazione di compensazione narcisistica: dove la vita ha tolto, il simbolo restituisce in forma esagerata.

Quando il sogno sostituisce la realtà

La differenza tra nevrosi e psicosi sta in un punto ben preciso:

  • nel nevrotico, il soggetto sa (almeno a un certo livello) che sintomi, fantasie, paure sono “solo” interni;
  • nello psicotico, il mondo simbolico prende il posto della realtà: non è “come se fossi una regina”, io sono la regina.

Nella psicosi il sogno, potremmo dire, ha vinto sulla veglia. La struttura è la stessa del mito o del sogno notturno; ciò che cambia è la possibilità di integrazione. Integrare in questo caso è la capacità di dare un senso all’accadere, non di prenderlo alla lettera: nel delirio si letteralizza.

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Sogno, mito e archetipi: la ferita che tocca l’universale

Jung si accorge ben presto che molti sogni – soprattutto quelli che chiama “grandi sogni” – sembrano parlare una lingua più antica di quella personale (Inconscio collettivo).

I grandi sogni

I grandi sogni:

  • non si spiegano solo con la biografia individuale
  • contengono immagini mitiche, figure archetipiche, scene che ricordano racconti religiosi o fiabe tradizionali
  • compaiono spesso in momenti di svolta (pubertà, crisi di mezza età, malattia grave, lutti, decisioni cruciali)

In questi sogni, la ferita personale sembra agganciarsi a una storia più grande, collettiva:

  • un sogno di discesa in una caverna può risuonare con i miti dell’oltretomba
  • un sogno di smembramento e ricomposizione del corpo può richiamare i miti di morte e rinascita (Osiride, Dioniso, Cristo)
  • il sogno di una guida interiore saggia può incarnare l’archetipo del Vecchio Saggio o della Grande Madre

Inconscio collettivo e antropologia del simbolo

Qui la ferita individuale incontra qualcosa che l’umanità conosce da millenni. Antropologia, storia delle religioni e mitologia comparata mostrano come:

  • le società tradizionali abbiano costruito miti e riti di iniziazione, che spesso prevedono una ferita simbolica: isolamento, prove, sangue, cicatrici rituali, tatuaggi
  • la ferita diventa passaggio: un prima e un dopo, una morte simbolica dell’identità precedente e una rinascita in una forma nuova (ad esempio il passaggio da adolescente a adulto, da profano a membro del gruppo, da non-sapiente a iniziato)

In questo senso, molte crisi moderne – che viviamo come puramente individuali e patologiche – possono essere lette anche come riti di passaggio mancati:

  • la depressione dell’adolescente che non trova un luogo nel mondo
  • il crollo di mezza età in cui la persona si chiede “chi sono davvero?”
  • la crisi dopo un lutto, un divorzio, una malattia

La psicologia analitica non riduce tutto alla biografia, ma invita a domandarsi:

Quale mito, quale grande storia sta cercando di parlare attraverso questa ferita?

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Il metodo costruttivo: dal perché al verso dove

Nel lavoro clinico, questo porta Jung a formulare una svolta metodologica: il metodo costruttivo.

Oltre la sola ricerca delle cause

La psicoanalisi classica, in particolare quella freudiana, ha insistito molto sul metodo riduttivo:

  • risalire dal sintomo al trauma infantile
  • svelare il desiderio rimosso
  • mostrare il nesso tra un contenuto attuale e un’esperienza passata

Questo lavoro resta fondamentale, ma non basta. Sapere “perché” sto male, di per sé, non mi dice cosa farne oggi.

Il metodo costruttivo aggiunge una domanda:

Che cosa sta cercando di diventare la mia psiche attraverso questo sintomo, questo sogno, questa crisi?

In altre parole:

  • non solo da dove viene il sintomo
  • ma verso dove tende
  • quale possibile forma di vita nuova cerca di annunciare

Il simbolo come ponte verso il futuro

Il simbolo (nel sogno, nel sintomo, nel delirio) viene allora visto come:

  • un abbozzo, spesso confuso e grottesco, di una soluzione
  • un ponte verso una configurazione della personalità ancora non compiuta
  • il germe di un nuovo atteggiamento, che non è ancora pensabile razionalmente

L’esempio famoso della medium che, in trance, crea la figura di una donna forte, sapiente e autonoma – una sorta di alter ego ideale – mostra bene questo movimento:

  • la personalità secondaria immaginaria anticipa la donna adulta che la ragazza diventerà anni dopo
  • il “personaggio interiore” non è solo fuga, ma prototipo di una trasformazione reale

Integrazione e crescita: pacificare il vassallo ribelle

Se la ferita è un complesso autonomo, e se il simbolo è il suo linguaggio, allora l’obiettivo terapeutico non è eliminare il vassallo ribelle, ma trasformare il rapporto di potere nel regno psichico.

Non amputare, ma integrare

L’idea di “guarire” come restituzione allo stato precedente è spesso illusoria. Dopo certe ferite, non si torna “come prima”.

La domanda diventa:

“Come posso diventare altro, includendo ciò che è successo, invece di negarlo?”

Integrare il complesso significa:

  • riconoscerlo: smettere di far finta che non esista
  • ascoltarne il linguaggio simbolico: sintomi, sogni, fantasie, impulsi
  • comprendere il senso evolutivo del suo messaggio
  • ricollocare la sua energia al servizio di un progetto di vita più ampio

Il vassallo ribelle, allora:

  • non viene eliminato
  • viene riconosciuto come potente signore di una regione del regno
  • invitato a partecipare al governo, sotto una forma negoziata

Individuazione: diventare ciò che si è

Nella fase matura del pensiero junghiano, questo processo prende il nome di individuazione:

  • non è un egoismo raffinato, ma il cammino per divenire quel Sé particolare che potremmo essere
  • implica un confronto con le ombre, i limiti, le ferite, ma anche con le potenzialità non ancora vissute
  • chiede di accettare che non siamo solo ciò che vorremmo essere, ma anche ciò che siamo stati, ciò che abbiamo perso, ciò che non avremo mai

In quest’ottica, la ferita integrata diventa:

  • una cicatrice portatrice di memoria
  • un luogo di sensibilità verso la sofferenza altrui
  • una sorgente di creatività simbolica (arte, lavoro, relazioni, scelte esistenziali)
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Figure della perdita nella vita quotidiana: esempi clinici e biografici

Per rendere più concreto tutto questo, possiamo guardare alcune figure tipiche della perdita nella clinica e nella vita quotidiana.

La perdita di amore: il complesso di abbandono

Una persona che ha vissuto ripetute esperienze di abbandono (reale o percepito) può sviluppare un complesso di abbandono che:

  • si attiva in ogni relazione significativa;
  • la porta a controllare eccessivamente l’altro, oppure a ritirarsi prima di affezionarsi;
  • genera sogni di case vuote, stazioni ferroviarie, valigie pronte, treni persi.

Il simbolo lavora in due direzioni:

  • mostra il dolore infantile non elaborato;
  • ma anche la possibilità di trovare una nuova forma di legame, meno fusione e più reciprocità.

La perdita di riconoscimento: il complesso di inferiorità

Una storia di svalutazione cronica può dare origine a un potente complesso di inferiorità:

  • l’individuo si sente sempre “meno” degli altri, anche quando oggettivamente è competente;
  • rilegge ogni feedback neutro come conferma di inadeguatezza;
  • può oscillare tra auto-svalutazione e fantasie grandiose.

Qui il simbolo può manifestarsi in sogni dove compaiono:

  • esami impossibili da superare;
  • giudici severi, tribunali, platee che osservano;
  • oppure improvvisi sogni di vittoria, premi, riconoscimenti esagerati.

Il lavoro analitico aiuta a:

  • smontare la tirannia interna del giudice;
  • riconoscere le competenze reali;
  • dare forma a un sentimento di sé meno dipendente dallo sguardo esterno.

La perdita di senso: crisi esistenziali

In molti momenti storici (crisi economiche, pandemie, guerre) emerge un’esperienza diffusa di perdita di senso:

  • ciò che prima dava struttura (lavoro, ruoli sociali, credenze religiose) vacilla;
  • aumentano sintomi depressivi, ansia, ritiro sociale;
  • proliferano soluzioni magiche, complottismi, estetiche del disastro.

Da un punto di vista junghiano, questa può essere letta come una gigantesca crisi simbolica collettiva:

  • vecchi miti non funzionano più;
  • nuovi miti non sono ancora nati;
  • la ferita comune cerca immagini per rappresentarsi.

Qui l’analisi individuale incontra la responsabilità culturale: artisti, pensatori, educatori, terapeuti partecipano – ciascuno a modo suo – alla creazione di nuovi simboli condivisibili.

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Uno sguardo storico e antropologico alla ferita

La nostra epoca tende a vivere la ferita come errore da correggere, “bug” da eliminare.

In molte culture tradizionali, invece, la ferita era:

  • necessaria: parte integrante dei riti di passaggio;
  • ritualizzata: iscritta in narrazioni e cerimonie;
  • socialmente riconosciuta: il gruppo dava senso e forma all’esperienza.

Basti pensare:

  • ai tatuaggi e alle scarificazioni tribali, veri e propri archivi sul corpo della storia personale e del clan;
  • ai racconti iniziatici in cui l’eroe viene ferito, smembrato, ucciso e ricomposto;
  • alla tradizione cristiana, dove il Risorto conserva le stimmate: le ferite non scompaiono, diventano segni trasfigurati.

Questi riferimenti non vanno idealizzati – anche le società tradizionali possono essere crudeli – ma ricordano qualcosa di essenziale:

la ferita ha bisogno di forma, racconto, rito.

Senza una cornice simbolica, il dolore resta muto o esplode in sintomi caotici.

Psicoanalisi, spiritualità e cicatrici del senso

Per molti, il lavoro analitico è anche – in modo laico o religioso – una forma di ricerca spirituale:

  • non nel senso di adesione a una dottrina, ma come domanda di senso che oltrepassa l’utile immediato;
  • la ferita diventa luogo di una possibile esperienza di profondità.

Nella prospettiva junghiana:

  • il – distinto dall’Io – rappresenta un principio ordinatore più ampio, che tende a integrare gli opposti;
  • la ferita può diventare porta verso il Sé, quando non viene solo subita, ma ascoltata e lavorata;

Molte tradizioni religiose e sapienziali, da Francesco d’Assisi ai maestri zen, fino ai racconti sufi e cabalistici, insistono su questo paradosso:

è proprio nel punto in cui siamo più fragili che può emergere una forma nuova di forza, non più basata sul controllo.

Da questo punto di vista, la psicoterapia non sostituisce la spiritualità, ma può sgombrare il terreno, chiarire i conflitti, trasformare fantasie infantili in simboli adulti.

La ferita che si fa simbolo non elimina il mistero, ma lo rende abitabile.

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Come lavorare oggi con la perdita: spunti per clinici e non addetti ai lavori

Che cosa può significare tutto questo, concretamente, per:

  • chi lavora in ambito psicologico
  • chi affronta una perdita o una crisi esistenziale
  • chi semplicemente vuole vivere in modo più consapevole?

Per chi lavora in clinica

Alcuni orientamenti possibili:

  • ascoltare il sintomo come simbolo: invece di puntare subito alla sua eliminazione, domandarsi che cosa sta cercando di dire
  • tenere insieme riduzione e costruzione: esplorare la storia passata, ma chiedersi sempre anche “verso dove” tende il materiale che emerge
  • accogliere l’autonomia del complesso: non colpevolizzare il paziente per “mancanza di volontà”, ma aiutarlo a riconoscere quali vassalli ribelli abitano il suo regno
  • lavorare con i sogni e le produzioni immaginative come luoghi privilegiati in cui la ferita si simbolizza.

Per chi attraversa una perdita

Alcuni gesti interiori, che non sostituiscono un percorso terapeutico ma possono affiancarlo:

  • dare un nome a ciò che si sta perdendo: persona, ruolo, immagine di sé, sicurezza…
  • rallentare, per quanto possibile, prima di correre verso la “normalità”: il tempo della ferita è spesso diverso dal tempo esterno;
  • annotare sogni, fantasie, immagini che emergono: spesso la psiche lavora nel sonno o nelle ore sospese;
  • cercare parole, opere, persone che offrano una cornice simbolica (libri, film, arte, gruppi, comunità spirituali o culturali).

L’obiettivo non è diventare “più forti” negando la ferita, ma più interi includendola.

Conclusione: dalla ferita al senso, senza cancellare il dolore

Tutto il cammino che abbiamo tracciato mostra un paradosso:

  • se vogliamo solo eliminare la ferita, rischiamo di cedere ancora più potere al complesso, che continuerà a lavorare nell’ombra;
  • se impariamo a considerarla una realtà psichica viva, portatrice di un messaggio, può diventare inizio di una trasformazione.

Il dolore non viene romanticizzato: resta dolore. La perdita non viene negata: resta perdita.

Ma il modo in cui la psiche lavora quel dolore può trasformarlo da pura distruzione a materia di senso.

Il passaggio non è automatico, né garantito, pertanto richiede:

  • tempo, a volte molto
  • relazioni sufficientemente sicure
  • strumenti simbolici adeguati (parole, immagini, riti, sogni, pensiero)
  • la disponibilità, sempre rinnovata, a incontrare le proprie ombre

In questo orizzonte, la domanda non è più solo:

Come faccio a non soffrire più?

ma diventa:

Che cosa sta cercando di nascere, in me, attraverso questa ferita?

Quando riusciamo, almeno in parte, a rispondere a questa domanda, iniziamo davvero a muoverci dalla ferita al simbolo.

E, passo dopo passo, scopriamo che proprio là dove ci sentivamo più spezzati può nascere una forma nuova di interezza: fragile, certo, ma autentica, creativa, condivisibile.

Pubblicato il
26 Dicembre 2025

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