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Una civiltà che adorava la luce (e non solo il sole)
Quando si parla dell’antico Egitto, l’immaginario collettivo tende a soffermarsi su piramidi, mummie e rituali funebri, come se si trattasse di una civiltà ossessionata dalla morte. In realtà, l’Egitto faraonico è una civiltà della luce, nel senso più profondo e filosofico del termine. Una cultura che ha intuito, con millenni di anticipo, che la consapevolezza è la vera cura contro il caos, contro la frammentazione dell’essere e contro la sofferenza che nasce dall’ignoranza di sé.
Consapevolezza e chiara comprensione nella meditazione

Perché consapevolezza e chiara comprensione devono camminare insieme Con la meditazione succede spesso: si inizia con entusiasmo, si ascoltano le istruzioni, si prova a “stare attenti”- e poi ci si
La luce non è mai solo un fenomeno fisico. È chiarezza, visione, capacità di distinguere, di ordinare, di dare forma. Per gli Egizi, la luce è coscienza, principio vitale che permette all’essere umano di non soccombere alle forze cieche del disordine. Non a caso il sole – Ra, Atum, Amon-Ra – è al centro del pensiero religioso egizio: il sole illumina, rende visibile, separa il mondo dalla notte indistinta del Nun, l’oceano primordiale.
Questa visione non è ingenuamente ottimistica. Al contrario, nasce da una profonda consapevolezza del dolore, della perdita e della violenza insite nell’esistenza. Ed è proprio qui che l’Egitto rivela la sua sorprendente modernità.
Dal caos alla coscienza: lo smembramento come origine del senso
Uno dei grandi temi mitologici egizi è lo smembramento. Il mito di Osiride racconta come Seth, divinità ambigua e necessaria, rappresentazione del caos, dell’aridità e della disgregazione, uccida e faccia a pezzi il fratello Osiride, disperdendone le membra.
Questo atto non è solo un delitto familiare o una metafora politica. È una narrazione cosmologica e antropologica: il mondo, e l’essere umano con esso, nasce dalla frattura, dalla separazione, dalla perdita dell’unità originaria.
La coscienza non emerge da uno stato idilliaco, ma da una ferita.
Qui l’Egitto si colloca accanto ad altre grandi tradizioni arcaiche. Basti pensare a Dioniso, smembrato dai Titani nella mitologia greca, o ai rituali sciamanici in cui l’iniziato viene simbolicamente fatto a pezzi per essere ricostruito in una forma nuova. In tutti questi casi, il messaggio è chiaro: non c’è risveglio senza disintegrazione.
Carlo Rovelli: Helgoland, com'è fatto il reale

https://youtu.be/PjFGM5gI1fo Una bellissima lezione del fisico Carlo Rovelli in occasione della presentazione del libro Helgoland. Interpretazione relazionale della meccanica quantistica Le cose in sé non hanno proprietà di per sé,
Iside e l’intelligenza che ricompone
Se Seth rappresenta la forza che disgrega, Iside incarna l’intelligenza che ricompone. Dea della magia, della conoscenza e dell’amore operante, Iside raccoglie i frammenti del corpo di Osiride e li riunisce. Questo gesto non è solo un atto di devozione, ma una vera e propria operazione simbolica di guarigione.
Iside non nega lo smembramento, non tenta di cancellarlo. Lo attraversa, lo accetta, lo integra. È una lezione potentissima: la guarigione non consiste nel tornare a uno stato precedente alla ferita, ma nel trasformare la ferita in consapevolezza.
Da questa unione ricostituita nasce Horus, il figlio-falco, destinato a vendicare il padre e a ristabilire l’ordine.
Horus, il falco e lo sguardo dall’alto
Horus è una delle figure più affascinanti del pantheon egizio. Raffigurato come un falco o come un uomo con testa di falco, incarna la visione dall’alto, la capacità di osservare la realtà senza esserne completamente inghiottiti.
Il falco vede lontano, distingue le forme, coglie l’insieme.
In termini simbolici, Horus rappresenta una coscienza che ha iniziato a differenziarsi dal caos, ma che deve ancora confrontarsi con esso. Il conflitto con Seth non è una semplice lotta tra bene e male: è il dramma eterno tra ordine e disordine, tra forma e dissoluzione, tra coscienza e pulsione cieca.
Cos'è il tempo? La risposta di Massimo Cacciari

Condivido un interessante contributo video di Massimo Cacciari sul concetto di tempo, davvero imperdibile. https://youtu.be/wXlvhWjH9Zk?si=sxXv0pAVmlqjcP9c Segue la trascrizione dell’audio: A partire almeno da Kant non è possibile concepire il tempo
Durante uno degli scontri più violenti, Seth strappa l’occhio a Horus. Questo momento è centrale e densissimo di significato.
La ferita della visione: quando la coscienza perde l’occhio
La perdita dell’occhio è una delle immagini simboliche più potenti della storia umana. L’occhio è conoscenza, percezione, consapevolezza. Perdere l’occhio significa perdere temporaneamente la capacità di comprendere, sprofondare nella confusione, nella cecità interiore.
Il mito egizio non idealizza il risveglio. Al contrario, mostra con lucidità che ogni cammino di consapevolezza passa attraverso una crisi della visione. Non si diventa “illuminati” senza attraversare il buio. La coscienza deve spezzarsi per potersi ricostruire a un livello più alto.
In termini psicoanalitici, potremmo parlare di una frattura dell’Io, di una discesa nell’inconscio, di un confronto con l’ombra. E non è un caso che la guarigione dell’occhio non avvenga da sola.
La cura psicoanalitica e il mondo

Introduzione: l’individuo, la psiche e il mondo in crisi Viviamo in un’epoca di transizione radicale. Crisi ecologiche, disorientamento politico, frammentazione culturale, perdita di senso. Eppure, sotto questa superficie turbolenta, continua
Thot e l’Udjat: l’occhio guarito
È Thot, dio della scrittura, della sapienza, della misura e della guarigione, a intervenire per ricomporre l’occhio di Horus. Da questo atto nasce l’Udjat, termine che significa “guarito”, “integro”, “risanato”.

L’occhio non è sacro perché è perfetto, ma perché è stato ferito e poi guarito. L’Udjat è il simbolo di una coscienza che ha attraversato il dolore e ne è uscita trasformata.
L’Occhio di Horus significato spirituale non va cercato in una presunta onniveggenza divina, ma nella capacità di vedere dopo la ferita, di comprendere dopo la crisi, di ordinare dopo il caos.
Maat: ordine cosmico e ordine interiore
Una volta guarito, Horus riesce a sconfiggere Seth e a riconquistare il trono del padre. Ma ciò che ristabilisce non è solo una dinastia: è la Maat, il principio di verità, giustizia, equilibrio e armonia che regge il cosmo.
La Maat non è una legge imposta dall’esterno. È un ordine che nasce dalla consapevolezza. Senza coscienza, il mondo ricade nel caos. Senza integrazione della ferita, non c’è giustizia possibile.
Questo è uno dei messaggi più profondi del pensiero egizio: non esiste ordine esteriore senza ordine interiore.
L’Udjat come amuleto: protezione dei vivi e dei morti
L’Occhio di Horus non rimane confinato al mito. Diventa uno degli amuleti più diffusi dell’antico Egitto. Veniva indossato dai vivi come protezione e collocato tra le bende delle mummie per salvaguardare il corpo e l’anima nel viaggio nell’aldilà.
Per gli Egizi, la morte non è una fine, ma una trasformazione della percezione. Anche nell’aldilà, l’anima deve “vedere”, riconoscere la verità di sé stessa davanti al tribunale di Osiride, dove il cuore viene pesato contro la piuma della Maat.
L’Udjat garantisce che questa visione non venga meno.
Antropologia dell’occhio: un archetipo universale
Il fatto che ancora oggi, in Egitto e in molte altre culture, si portino amuleti a forma di occhio non è casuale. L’occhio come protezione è un archetipo universale, presente nel Mediterraneo, nel Medio Oriente, in Asia.
Dal punto di vista antropologico, l’occhio rappresenta la presenza della coscienza: essere visti significa essere riconosciuti, esistere. Dal punto di vista psichico, l’occhio protegge perché porta alla luce ciò che è nascosto.
In questo senso, l’eredità dell’Udjat è ancora presente.
In un mondo frammentato, dominato da nuove forme di caos – informativo, psicologico, sociale – il mito dell’Occhio di Horus parla con sorprendente attualità. Ci ricorda che la guarigione non è negazione del dolore, ma integrazione della ferita. Che la luce non è fuga dall’ombra, ma capacità di attraversarla senza esserne distrutti.
L’antico Egitto, 5.000 anni fa, aveva già intuito ciò che oggi la psicologia, la filosofia e le neuroscienze stanno riscoprendo: la coscienza è la vera medicina.
Questo articolo è stato ispirato a seguito della visita alla mostra Tesori dei Faraoni, Roma.

Psicologo clinico, Guida in pratiche Meditative, Facilitatore in Mindfulness (ric. IPHM), Master DCA (Disturbi del Comportamento Alimentare), Master in Sessuologia Clinica, Master in Linguaggi della Psiche, Conoscitore in psicosomatica
