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La domanda all’origine dell’essere umano
per una risposta impossibile

Mi avvalgo di un aneddoto personale a introduzione di questo articolo.

Parlando di origini, se provo a pescare nella mia memoria il ricordo più vecchio ne trovo uno di quando avevo 5 anni. Mi ricordo che ero in braccio a mia madre, accanto a noi mia zia materna, eravamo sul balcone di casa dei miei nonni. Era sera, la luna in cielo, una luna piena. «Guarda Matteo, lo vedi che la luna ha un volto. Vedi ha due occhi, il naso e la bocca», mia madre mi esortava. Io non vedevo niente, nessun volto. Poi d’improvviso lo vidi: “il volto della luna” e da allora lo vedo sempre.

Il sapere sappiamo essere diviso tra una corrente evoluzionista che guarda a Darwin e una corrente che, a seguito delle scoperte paleoantropologiche della seconda metà del ‘900, tende ad abbandonare questa concezione.

L’essere umano non è un’animale razionale

In breve la teoria evoluzionistica considera l’uomo diretto discendente della scimmia, immaginando un comune progenitore che lega l’essere umano ai primati. Facendo dell’uomo un “animale razionale”, una “scimmia pensante”. È in questa prospettiva che si instaura la “clinica del deficit” (Bianchi), ovvero quella clinica che vede il bambino come deficitario rispetto all’adulto nel ventaglio delle competenze che deve acquisire, competenze che non avrebbe, come l’uomo primitivo nei confronti dell’uomo “evoluto” adulto.

Contrapposta al pensiero evoluzionista troviamo una psicologia che non guarda all’essere umano come discendente della scimmia. Scrive Zenoni: «[…] La somiglianza morfologica e la prossimità genetica stanno appunto a sottolineare la differenza di piano su cui si misura la “distanza” fra l’uomo e i primati. Sul piano della stazione eretta, della faccia corta, della dentizione, della fabbricazione di utensili, del linguaggio, e così via, il corpo umano differisce tanto da quello dell’orso quanto da quello del gorilla[1]

Tale prospettiva non evoluzionistica apre alla “clinica della faglia”, della domanda, del senso, perché tornando a Zenoni: «Prima del sorgere dell’umanità non vi era umanità; e dopo, il corpo umano sarà già, una volta per tutte, strutturato nella sua differenza. Non si incontra mai un pre-uomo, a meno di considerarlo come non-uomo, cioè appunto come una struttura zoologica diversa, poiché quando il corpo umano farà la sua comparsa, non sarà quello di una scimmia pensante, ma di una struttura zoologica diversa che ha preso il posto di quella del primate. Di modo che per sapere qualcosa dell’uomo “primitivo” disponiamo sempre e solo dell’uomo, finché perderemo, all’improvviso le tracce della sua presenza e troveremo soltanto fossili non umani.» [2]

Nell’umano sia bios che nous

Seguendo l’invito proposto da Zenoni risulta chiaro immaginare che alla nascita del bambino, come fu per il primo essere umano (Homo Habilis: 2,4 – 1,44 milioni di anni fa), questi sia già “pre-cablato” nel linguaggio da cui il suo domandare del latte e di altro, per vivere (bios) e per amore (nous).

Per tornare all’aneddoto personale con il quale ho introdotto l’articolo, in modo sincronico “vidi il volto della luna” perché in quanto essere umano ero già nel linguaggio, nel rapporto tra significante (segno) e significato (senso). Quella rappresentazione già presente in me attendeva semplicemente di essere “accesa” dall’altro parlante.

A seconda dell’orientamento “evoluzionista” oppure “non evoluzionista” si dipanano i principali nomi e approcci per la cura della psiche umana del ‘900.

Orientamento evoluzionista:

  • John Bowlby (Teoria dell’attaccamento)
  • William R. D. Fairbairn (Teoria delle relazioni oggettuali)
  • Jean Piaget (Teoria stadiale dello sviluppo)

Orientamento non evoluzionista:

  • Sigmund Freud (Teoria delle pulsioni)
  • Melany Klein (Teoria delle relazioni oggettuali)
  • Jacques Lacan (Teoria della mancanza d’oggetto)

Come suggerisce Jung l’invito è quello di integrare, di tenere insieme le due polarità, nel gioco dinamico degli opposti. Volendo trovare un punto di incontro potremmo pensare che ciò che Bowlby definisce pattern specie specifici di comportamento, possano essere per il pianto la “domanda” e per il grido “l’appello” (Freud, Lacan).

Concludendo ancora con Zenoni: «[…] Non vi è alcun momento, per quanto precoce, in cui l’essere del bambino non si mostri omogeneo all’elemento linguistico nel quale si trova immerso. Un animale, ci si rivolga o meno a esso, lo si chiami o meno col suo nome, non modifica la vitalità delle sue reazioni una volta che i suoi bisogni siano soddisfatti. Per fortuna o sfortuna, esso non si ritrova alienato da questo rapporto con l’Altro del linguaggio, né appare un immigrato nel territorio della parola: il suo essere coincide con il luogo in cui come organismo si trova a stare, e di ciò non può ammalarsi. Dal momento che l’organismo viene al mondo non con il linguaggio di fronte a sé ma dalla stessa sua parte, si troverà da subito inserito in un processo dialettico che non gli proviene dalla sua base animale, ma proprio dal fatto di averla dimenticata. Il suo trovarsi in uno stato di “prematurità” o di “non specializzazione” rispetto alle altre specie animali non reca forse in sé le stigmate biologiche o etologiche del suo sradicamento dal suolo animale e della sua primordiale trasposizione in una dimensione Altra da quella della natura? Per l’essere parlante la dimensione dell’Altro è reale sin dalla sua strutturale presa nel campo della risposta e della domanda, sin dalla sua appartenenza alla specie umana.» [3]

La domanda che diventa ricerca di qualcosa

L’essere umano che viene al mondo porta con sé una domanda, la domanda è sempre “domanda di qualcosa” e non viene mai esaurita con il presunto oggetto del bisogno; da qualcosa, quale-cosa?

Quale cosa, ovvero la “cosa”, corrisponde in Freud a quanto viene definito come “oggetto perduto” ovvero un oggetto mitico che estinguerebbe ogni bisogno o necessità (es: la pietra filosofale per gli alchimisti), riportando l’essere umano in quella condizione ideale che ricorda la vita prenatale, dove non occorre “domandare” perché tutto ci è dato.

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Comincia dunque con questa faglia, buco, feritoia, spazio vuoto, la vita dell’essere umano: una vita di domande.
Così il neonato quando chiede “latte”, domanda anche “cosa sono io per te?”, “perché te ne vai?”, “cosa ti porta via da me?”, “parlami”.

Il bambino non sa che anche l’altro è “bucato”, anche l’altro porta con sé una domanda che anela risposta.
In questo contesto si apre lo scenario delle cure materne, scenario molto delicato determinato dalla capacità (maturità, Winnicott) della madre di poter rinunciare a un po’ del proprio “desiderare l’oggetto perduto” per dare amore al proprio bambino. Secondo Bowlby l’amore materno si traduce come spegnimento del sistema di attaccamento della madre e l’immediata accensione del  suo sistema di accudimento.

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Psicologia delle cure materne

Il tema delle cure materne nella formazione della personalità del bambino è un argomento ampiamente trattato in psicologia. Autorevoli psicologi quali Freud, Klein, Bowlby, Winnicott, Fairbairn, e Lacan hanno affrontato

Nella relazione oggettuale che sorge tra madre e bambino Balint invita a ricordare che “tra tutti gli oggetti, quello umano è l’unico che ha anche gli occhi per vedere l’altro”.

Entrambi i soggetti di una relazione umana diventano l’uno oggetto dell’altro, ed è proprio questo diventare oggetto, e domandare dell’oggetto che deve essere quanto più armonioso, equilibrato; ma l’essere umano è “bucato”.

Il danno del proprio “essere bucati” che non si sa, si vede bene nelle conseguenze psicopatologiche che sono esplicite in malattie mentali come l’autismo, quando il bambino per timore di essere “divorato dall’Altro” si chiude funzionando al massimo grado di difesa. Il minimo grado di funzionamento è la nevrosi, un alternarsi più o meno equilibrato di alienazione e separazione dall’Altro.

Dal qualcosa alla “cosa”: irraggiungibile

Dall’intervista che Fasoli tenne a Di Ciaccia già pubblicata su “Il Caffe’ illustrato” n. 37-38, luglio-ottobre 2007.

Di Ciaccia: «Al centro di noi c’è una zona in cui non sappiamo che cosa dire né come andarci. Prendiamo a mò di esempio questa semplice domanda: chi sono io? Qualunque cosa io dirò per rispondervi non farà altro che dire qualcosa, che dice di me, che gira intorno a me e che non sono io.
Posso dire che sono figlio di Tizio e di Caia, ma anche i miei fratelli lo sono. Posso dire questo o quest’altro, ma non arrivo mai a nominare il mio essere. Tanto che posso dire al contempo – come capita a tutti – che sono un genio e sono un cretino. Ma anche se fossero vere tutte e due, queste definizioni che mi do, non dicono affatto chi sono io.
Al centro di me, al più profondo di me c’é silenzio, c’é un vuoto, c’é la più profonda alterità, come già sant’Agostino aveva finemente percepito. […] Insomma, al di là del fatto di sapere se si tratti di un bene o di un male, questo vuoto, questo
silenzio, questo non-senso, per l’essere umano, è strutturalmente centrale.
Ora, cosa rivela il processo analitico, e cioè il fatto di attenersi alla regola fondamentale che è quella di dire qualunque cosa venga in mente in analisi? Ci rivela che il soggetto dirà, che se ne accorga o no, tutte le sue rappresentazioni – tutti i suoi significanti diciamo nel gergo lacaniano – le quali si metteranno a girare come in un vortice attorno a un vuoto di rappresentazione, vuoto che li aspira e che funziona, se posso utilizzare quest’immagine che vale quel che vale, come
quella del famoso buco nero in cui finiscono le galassie. […] La psicoanalisi, la potenza della psicoanalisi, é quella di rovesciare questo buco nero affinché il soggetto vi ritrovi, non solo che la verità del suo essere è proprio li, ma che è da li che egli potrà, umanamente, desiderare e, umanamente, godere.»

Lettura consigliata

L'uomo moderno secondo Carl Gustav Jung

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Si riporta questo frammento della conferenza che, lo psichiatra e psicoanalista, Carl Gustav Jung tenne nell’ottobre del 1928, in occasione del Convegno dell’Associazione per la cooperazione intellettuale di Praga. [caption

Bibliografia

1 - A. Zenoni, Il corpo e il linguaggio nella psicoanalisi, Bruno Mondadori, 1999, p. 10
2 - Ibidem, pp. 19-20
3 - Ibidem, p. 45

Pubblicato il
7 Maggio 2022
Ultima modifica
13 Maggio 2022 - ora: 21:38

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